Qualità della vita ed emergenza covid-19: conclusioni e risvolti psicologici

11 Aprile 2020

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INDICE

Risultati

Risvolti psicologici

Perché i giovani risultano essere la popolazione più  colpita dal disagio?

Analisi del fattore “rapporti sessuali” quale bisogno primario

#restiamoacasa e la violenza domestica

Il personale sanitario

Le persone con disabilità

L’ansia quale stato preminente in questo periodo, descrizione e prevenzione

Il Disturbo Post Traumatico da Stress quale possibile effetto di questo periodo, descrizione e prevenzione

Approfondimento (informazioni che sono state richieste nella domanda aperta)

Il lutto non celebrato

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Risultati

Contesto

Da giovedì 26 marzo a martedì 31 marzo 2020 è stato diffuso un QUESTIONARIO COVID-19 VS SALUTE, con l’intenzione di fotografare la qualità della vita degli italiani.

Qualità di vita significa appagamento dei bisogni primari, tramite l’accesso a beni e servizi; possibilità di soddisfare bisogni superiori e raggiungere obiettivi complessi quali la realizzazione sociale e lavorativa; la ricerca della felicità attraverso la cura delle relazioni, lo sviluppo delle passioni, l’impiego del proprio tempo libero.

Il periodo cui i dati raccolti fanno riferimento vedono l’Italia colpita da un’emergenza sanità pubblica di rilevanza internazionale, definita come epidemia da COVID-19 (dichiarata dall’Organizzazione mondiale della sanità, OMS, il 30 gennaio 2020) con una distribuzione non omogenea della pandemia ovvero maggiore nel nord italia.

Focolaio cinese (31/12/2019); focolaio nel nord Italia (21/02/2020); misure restrittive per la società a partire dal 04/03/2020; l’OMS dichiara la pandemia (11/03/2020).

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Questionario

Sono state sperimentate versioni alternative del questionario su piccoli campioni (test di alternative). Ultimata la fase di controllo, il questionario è stato diffuso on-line tramite Facebook, Instagram, WhatsApp.

Il questionario, oltre a raccogliere informazioni biografiche (regione, età, sesso, istruzione, nucleo abitativo e spazio, lavoro e tempo libero) si compone di 13 item con risposta su scala Likert a 5 punti (da “non so” a “molto”) e una domanda con modalità di risposta aperta.

I risultati sono stati suddivisi in tre scale: Preoccupazione, Cambiamento, Umore.

È stata analizzata la distribuzione delle frequenze delle risposte aperte e le relazioni di queste con le tre scale.

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Campione

Il campione è composto da 716 italiani con un’età media di 39 anni

Risultati:

Distribuzione delle risposte alla domanda aperta:

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Risvolti psicologici

Perché i giovani risultano essere la popolazione più colpita dal disagio?

Come abbiamo potuto vedere dall’analisi dei dati in questo momento di emergenza, la fascia della popolazione più colpita riguarda gli adolescenti e i giovani adulti, i quali, presentano livelli di disagio maggiori nelle tre scale da noi valutate (Preoccupazione, Cambiamento, Stato Emotivo)

Negli articoli precedenti abbiamo già cercato di mettere in luce quelle che sembrerebbero le variabili con maggiore incidenza; “perdita o assenza di lavoro, maggiori incertezze rispetto al proprio futuro, pensieri ruminativi legati a se stessi e alle proprie possibilità di autorealizzazione”.

Queste variabili si mostrano valide sia per i giovani adulti sia, per gli adolescenti, con “l’aggravante” che ai ragazzi, oggi, è stato tolto tutto o quasi.

Non è nuovo il decreto riguardo la scuola, inserito nella manovra “Cura Italia”, non si tornerà in aula prima del nuovo anno scolastico, senza alcuna garanzia che si possa effettivamente rientra in classe a Settembre.

In questo modo molti dei nostri ragazzi non potranno vivere l’esperienza dell’esame di stato, della gita di fine anno, non avranno la possibilità di stare in gruppo e studiare sino ad arrivare alla tanto attesa notte prima degli esami. Gli verrà tolta la possibilità della prima vacanza da “adulta/o” dopo la fine della scuola, della prima estate di libertà e degli amori vissuti al tramonto in riva al mare.

Stiamo davvero chiedendo moltissimo ai nostri ragazzi. Loro rispondono, annuiscono, rispettano le regole e i decreti fin qui stabiliti, ma a quale costo?

Qual è e quale sarà il prezzo  che stanno pagando e che pagheranno i nostri ragazzi in nome di un bene superiore, in nome e per la sicurezza dell’intera popolazione?

Questi ragazzi che per la prima volta nella loro esistenza si ritrovano ad affrontare qualcosa che tutte le generazioni in vita non hanno mai visto, qualcosa di molto grande, tanto da coinvolgere l’intera umanità, ma altrettanto piccolo da rendersi invisibile ai nostri occhi.

Gli chiediamo di rimanere in casa e di capire qualcosa che noi adulti stessi facciamo fatica a capire, gli viene chiesto loro di stare in famiglia, la stessa famiglia dalla quale molto spesso desiderano scappare e, non necessariamente perché non sia un luogo sicuro, ma molto più semplicemente perché la loro vita è fuori. Gli adolescenti sono aquile che scoprono di saper volare e, qual è il primo battito d’ali che si compie se non quello di volare fuori dal nido, di scoprire il mondo e meravigliarsi della vita fuori da quelle quattro mura e scoprire di potercela fare, di non essere soli.

Hanno un nido, si, ma scoprono che il mondo è un luogo ricco di case e le persone possono essere altre famiglie, altri posti sicuri. Stiamo chiedendo ai nostri ragazzi di rallentare, di fermare la loro corsa alla conoscenza della vita e di loro stessi, stiamo chiedendo loro di arretrare rispetto alla loro stessa individuazione, di aspettare per scoprire chi sono e di rimanere ancora un po’, per un altro po’ figli.

I nostri ragazzi abbassano il capo e accettano, pagando il prezzo più alto di tutti di noi, si arrabbiano, piangono, si rinchiudono nelle loro stanze e utilizzano l’unico strumento di socializzazione che hanno a loro disposizione, internet.

Passano intere giornate al pc o al telefono, tra un messaggio e una video chiamata, tra un gioco online e una serie tv che gli consente di evadere da quelle quattro mura e di identificarsi ora, con uno ora, con un altro personaggio, ma questo non basta.

Il rischi maggiori ai quali vanno incontro sono il ritiro e l’isolamento, prendiamo ad esempio il fenomeno degli Hikikomori, in crescente aumento, o l’altrettanto probabile sviluppo di una dipendenza, da internet, dal gioco, o altre forme dette di dipendenza comportamentale.

Internet non basta perché ai nostri ragazzi è stato tolto qualcosa che forse non è ancora del tutto chiaro nemmeno a loro, il contatto, il calore umano, quel calore che non è più di mamma o papà, ma il calore dell’altro che è diverso da me.

L’ abbraccio di un’amica, la carezza, l’incontro degli occhi, le verità profonde delle mani, i baci, le mani tra i capelli, lo sfiorarsi dei corpi ancora troppo imbarazzati per andare oltre, l’eccitazione del primo momento di intimità, la scoperta di se stessi e della propria sessualità.

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Analisi del fattore “rapporti sessuali” quale bisogno primario

Si, abbiamo chiesto ai nostri ragazzi di non fare l’amore, di non conoscersi, di non scoprire il corpo e l’anima che vi risiede dentro, di non innamorarsi o se si, di farlo a distanza, perdendo così contatto e conoscenza con la forma più alta e più intima della vita, l’amore e l’orgasmo, la vita e la morte.

In questo momento i siti porno così come il fenomeno del revenge porn vedono un impennata. Non vogliamo qui paragonare la scelta e la possibilità di vedere un film o un video porno al fenomeno attuale del revenge, in quanto, il primo può essere considerato normale e una legittima scelta anche se, è ampiamente documentato che un uso eccessivo di video porno può trasformarsi in una dipendenza comportamentale creando, per altro importanti ripercussioni sulla vita sessuale della persona che ne fa abuso tra cui, problemi di erezione, di performance nei ragazzi, imbarazzo, ritiro, condotte estreme sul proprio corpo per essere come l’attore o l’attrice, senso di impotenza e mentalizzazione estrema dell’atto amoroso.

Negli ultimi anni è stato osservato che l’età della così detta prima volta è nuovamente salita, i ragazzi fanno l’amore per la prima volta intorno ai 18/20.

Diversi studi collegano questo aumento dell’età proprio alla paura legata alla prima volta ma, non la paura che possiamo immaginare, vissuta da tutti noi rispetto al primo incontro con l’altro sesso quanto più, un’ansia da prestazione se non addirittura in alcuni casi una dismorfofobia per il proprio corpo e per il proprio pene, nei ragazzi, legata alla visione unica ed esclusiva di corpi, quelli degli attori, scelti per una performance sessuale.

Ancora, spesso, dopo la tanto fatidica prima volta provano sentimenti di imbarazzo, delusione e frustrazione poiché ciò che avevano visto è diverso da ciò che hanno vissuto. Troppo immersi nella prestazione, nel tentativo di mettere in atto tutto ciò che hanno visto creano in questo modo un ulteriore divario tra ciò che credevano, speravano di essere e la realtà dell’esperienza.

Questi sono i nostri giovani ragazzi che non sono educati alla sessualità, che non hanno ricevuto un’educazione emotiva ed affettiva che credono che il sesso sarà come in un video porno e per renderlo più simile, più vicino a ciò che conoscono lo riprendono, si riprendono, divulgano la loro performance proprio perché è questo per loro il sesso, pura mercificazione del corpo, potenza e possesso.

Non c’è amore, non c’è tenerezza, non c’è imbarazzo in questa sessualità e se già prima del Covid- 19 la situazione dei nostri ragazzi era preoccupante, com’è e come sarà adesso che abbiamo dilatato questo divario tra essere e fare, tra il sentire e il competere.

La sessualità è un argomento del quale non si è discusso e trattato, noi non abbiamo fatto domande a riguardo ed è stato un seguire un flusso, una tendenza. Del sesso non si parla, ancora oggi nel 2020.

Ed è assolutamente comprensibile in un’ottica di emergenza primaria trascurarlo come argomento, ma adesso a distanza di 50 giorni, la sessualità impone di essere chiamata in causa.

Se, le assolute e primarie necessità sono state riguardo la salute, oggi nel concetto di salute va inserita la sessualità, sia il sesso e i bisogni del corpo sia, l’amore, l’intimità dei corpi.

Come abbiamo potuto vedere dall’analisi dei bisogni, discussa nell’articolo precedente, molti di noi stanno sperimentando una regressione verso i bisogni cosiddetti primari, tra i quali il bisogno di sicurezza, e il bisogno di appartenenza (bisogno secondario).

In questo spazio è importante ricordare che tra i bisogni di sicurezza e appartenenza, l’intimità, il calore e la sessualità, intesa come esaltazione del piacere del corpo, vi rientrano a pieno.

Com’è oggi la nostra sessualità, ai tempi del COVID- 19 e come sarà una volta finita l’emergenza?

Sessualità e psicologia hanno sempre mosso grandi passi insieme a partire dalle prime teorie dello sviluppo psicosessuale di Freud, passando per potenza orgastica di Reich, la liberazione dei blocchi emotivi, della cosiddetta corazza caratteriale attraverso il piacere e l’armonia del corpo, anche attraverso la liberazione della propria sessualità, del proprio istinto e desiderio di vita.

Non vi è autore che non si sia occupato e non abbia pensato, in modi estremamente variegati all’importanza della sessualità nella vita dell’uomo e ancora oggi si parla di sessualità come motore alle volte, o come obiettivo in altre, nei percorsi di crescita di sé,  in psicoterapia.

Qual è o quali sono le rinunce alle quali ci stiamo sottoponendo per un bene superiore?, La presenza, il contatto, il calore, bisogni primari nel neonato, le necessità e desideri nell’adulto.

I nostri ragazzi così come i giovani hanno in sé enormi potenzialità e risorse, in loro alberga il seme della resistenza e della resilienza, troveranno il modo per riprendersi lo spazio di cui hanno bisogno, ma è necessario parlarne discuterne con loro e per loro, non possiamo permetterci di avanzare nel silenzio poiché è proprio nel silenzio che si generano i mostri quelli del non sapere, del non poter dire, dell’errore che si poteva evitare.

Se già da diverso tempo l’educazione sessuale e affettiva così come la consapevolezza  e l’espressione del proprio mondo emotivo è stata messa all’angolo dalle istituzione pubbliche che devono, invece, prendersene carico oggi più che mai questo importante aspetto della vita merita di essere messo in evidenza.

Non basterà fare la morale al sesso occasionale, all’uso improprio degli anticoncezionali, alla mancata e autonoma, conoscenza della sessualità e dei sui potenziali rischi se non fatta e vissuta in modo libero ma protetto.

Come aiuteremo, come educheremo i giovani ad una sana sessualità ai tempi del Covid-19, mascherine e guanti non fermeranno di certo il desiderio dell’altro, per citare Lacan.

Forse un fiore blu all’occhiello come ci descrive Agosti nel suo “Lettere dalla Kirghisia” chi lo indossa, è immune al covid chi no, non potrà garantire una sicurezza del suo stato di salute.

Non lo so, noi ci stiamo pensando, ci stiamo confrontando, facciamolo tutte/i e, tutte/i insieme, sosteniamoli ad amare.

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Les enfants qui s’aiment

I ragazzi che si amano

Les enfants qui s’aiment s’embrassent debout

Contre les portes de la nuit

Et les passants qui passent les désignent du doigt

Mais les enfants qui s’aiment

Ne sont là pour personne

Et c’est seulement leur ombre

Qui tremble dans la nuit

Excitant la rage des passants

Leur rage leur mépris leurs rires et leur envie

Les enfants qui s’aiment ne sont là pour personne

Ils sont ailleurs bien plus loin que la nuit

Bien plus haut que le jour

Dans l’éblouissante clarté de leur premier amour

 

I ragazzi che si amano si baciano in piedi

Contro le porte della notte

E i passanti che passano li segnano a dito

Ma i ragazzi che si amano

Non ci sono per nessuno

Ed è soltanto la loro ombra

Che trema nel buio

Suscitando la rabbia dei passanti

La loro rabbia il loro disprezzo i loro risolini

la loro invidia

I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno

Loro sono altrove ben più lontano della notte

Ben più in alto del sole

Nell’abbagliante splendore del loro primo amore

                                               J. Prevert 1951

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#restiamoacasa e la violenza domestica

Un’altra forma d’amore di cui vorremmo parlarvi è, quell’amore così detto malato, come molti lo definiscono, anche se, parlando di violenza domestica e femminicidio non possiamo parlare d’amore.

L’OMS (2002) ha definito la violenza come “l’uso intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi, altre persone o contro un gruppo o una comunità, da cui conseguono, o da cui hanno un’alta probabilità di conseguire, lesioni, morte, danni psicologici, compromissioni nello sviluppo o deprivazioni”.

In un periodo così delicato, dove si rende necessaria e inevitabile la convivenza forzata, un pensiero va a tutte quelle persone – donne, uomini, bambine e bambini – che sono vittime di violenze e abusi domestici. 

Quotidianamente, sentiamo e affrontiamo situazioni di violenza domestica. Purtroppo, le restrizioni in corso implicano una estesa condivisione degli spazi con il “partner violento”, rischiando così di determinare non solo un aumento del numero stesso di episodi di violenza, ma anche un loro aggravamento. 

I primi dati statistici provengono dalla Cina, paese che per primo è stato colpito dal virus e paese che per primo ha messo in atto le misure di anti-contagio restrittive. Già dall’inizio del mese di marzo, si sono registrati tantissimi casi di disagio provocati nelle coppie cinesi dallo stress psicologico e fisico derivante dal trovarsi costretti a vivere per settimane fianco a fianco.

Ci interroghiamo su quanto sia realisticamente sicuro “restare a casa” per loro, per le vittime.

Allo scoppiare dell’emergenza Covid-19 sembrerebbe sia scoppiata, o forse è più corretto dire è stata messa in luce con maggiore forza, la presenza e l’aumento dei casi di violenza domestica.

Nella stragrande maggioranza dei casi, sono uomini che abusano delle donne, compagne, mogli, figlie anche se, non neghiamo la presenza del fenomeno in senso contrario, donne che abusano dei loro uomini. Ma per quanto se ne discuta poco è pur vero che ad oggi non è emersa la necessità, in questo senso di creare un termine che definisse e chiarisse questa specifica forma di crimine verso le donne, il femminicidio.

Così come non è stata istituita una giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 25 Novembre, per sensibilizzare l’intera popolazione al fenomeno.

Perché accade, molte persone si chiedono, perché non ha denunciato o perché non è scappata, non lo ha lasciato?

Sono tutte legittime domande che meritano di trovare o perlomeno di provare ad avere delle risposte, ma per una trattazione esaustiva si renderebbe necessario un articolo, o forse anche più, a parte.

In questo spazio non abbiamo l’intenzione di sviscerare tutte le dinamiche psicologiche legate a questo fenomeno, ma riteniamo sia necessario parlarne, occupare, dare spazio anche noi a tutte quelle voci che ancora oggi troppo spesso non trovo lo strumento adatto per esprimersi.

Vogliamo parlare di loro, delle donne forti, ma allo stesso tempo estremamente fragili, di quelle donne capaci di reggere il peso continuo e ripetuto delle botte, delle umiliazioni e incapaci di reggere se stesse nella loro  sensibilità.

Loro sono le donne invisibili, le donne che si amano poco o per nulla, quelle che amano troppo come ci racconta Robin Norwood, in parte, nel suo libro “Donne che amano troppo”. Le donne che sperano ardentemente che quell’uomo, il loro uomo cambi per loro, per tutto l’amore che esse sono in grado di donargli.

Sul piano psicologico si innescano una serie di meccanismi che, purtroppo, sono in grado di creare una perfetta chimica, tra l’uomo e la donna, la stessa chimica dell’innamoramento. E’ possibile tracciare delle linea guida, comuni a queste tipologie di caratteri che si incontrano e si scelgono nel bene ma, soprattutto nel male. Si parla di dipendenza affettiva fino, ad arrivare a casi più estremi di psicopatologia in cui, appunto, l’amore prende le sembianze di un demone e uccide.

Lo stesso demone, che entrambi nella coppia portano dentro, un demone probabilmente scaturito dallo stesso seme, l’amore o la sua mancanza.

Spesso possiamo riscontrare nella narrazione di queste donne un profondo senso di solitudine e abbandono, una spesso totale auto colpevolizzazione, è colpa mia, sono stata io, l’ho fatto arrabbiare, lui è fatto così.

Queste affermazioni, spesso, creano rabbia e disappunto in chi le ascolta, ma se proviamo a scendere anche solo di un gradino nelle nostre capacità di entrare in ascolto con l’altro, di sentire l’emozione dell’altro, di essere empatici, quello che possiamo sentire è dolore, rassegnazione, solitudine e impotenza. Una spesso totale assenza di amore per se stesse, manca, spesso, la capacità di dire Io sono, Io voglio, Io desidero per me.

A tutte queste donne va dato spazio, ascolto e coraggio e questo oggi viene fatto per lo più grazie all’operato dei centri antiviolenza, anche oggi in emergenza Covid, ma non basta.

Come mai nonostante l’aumento delle violenze le chiamate sono diminuite? La paura nonostante il supporto esterno rimane, la paura dentro quelle quattro mura dalla quali non possono uscire. E se mi scopre? E se sente la telefonata? E se controlla il telefono?

Tutti questi se si trasformano in montagne da dover scalare e spesso diventa più facile rinunciarvi e aspettare che passi, sperando di sopravvivere.

Oggi più che mai servono azioni più mirate al contrasto e alla prevenzione della violenza domestica e del femminicidio, non possiamo lasciare da sole donne che trovano il coraggio di denunciare, ma sono costrette a ritornare in quella casa dell’orrore.

Oggi è necessario rivedere le forme e gli strumenti di prevenzione anche e soprattutto attraverso una nuova forma di educazione sentimentale, coinvolgendo gli uomini, protagonisti attivi di tutta questa vicenda, ma troppo spesso lasciati fuori in un’ottica di recupero e sensibilizzazione. Ancora una volta l’educazione affettiva, emotiva si rende necessaria non soltanto per i giovani e gli adolescenti, ma anche per chi quella tappa della vita, nel bene o nel male l’ha già vissuta, i nostri adulti malati d’amore.

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“ Perché dovrei essere così sciocca e permalosa da non capire che tutte queste lettere, avventure con donne, insegnanti di “inglese”, modelle gitane, assistenti di “buona volontà”, le allieve interessate all’arte della pittura” e le inviate plenipotenziarie da luoghi lontani rappresentano soltanto dei flirt? Al fondo tu e io ci amiamo profondamente e per questo siamo in grado di sopportare innumerevoli avventure, colpi alle porte, imprecazioni, insulti, reclami internazionali – eppure ci ameremo sempre… Credo che dipenda dal fatto che sono un tantino stupida perché tutte queste cose sono successe e si sono ripetute per i sette anni che abbiamo vissuto insieme e tutte le arrabbiature da cui sono passata sono servite soltanto a farmi finalmente capire che ti amo più della mia stessa pelle e che, se anche tu non mi ami nello stesso modo, comunque in qualche modo mi ami. Non è così? Spero che sia sempre così e di tanto mi accontenterò. Amami un poco, io ti adoro, Frida.”

Kahlo

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Il personale sanitario

“Medici, infermieri, operatori delle ambulanze, assistenti sociali e domiciliari sono sottoposti da settimane a un carico di lavoro estenuante, a cui si somma la pressione fortissima che deriva dal contatto quotidiano con la sofferenza e dalla paura di essere contagiati e di contagiare i propri familiari. Lo stress psico-fisico prolungato nel tempo rischia di avere conseguenze negative che non vanno sottovalutate” (il presidente dell’INAIL, Franco Bettoni).

“Lo stress lavorativo è un tema importante che, nell’emergenza Covid, è diventato drammatico per gli operatori sanitari in prima linea” (il presidente nazionale dell’Ordine Psicologi David Lazzari). 

Oltre alle preoccupazioni che affliggono tutti noi, i sanitari sono aggravati dalla reale preoccupazione di contagio e di contagiare i propri familiari, di resistere alla sofferenza che caratterizza il loro lavoro, l’esposizione al lutto, l’esposizione ai mass media, lavoro solitario (allontanamento dal team o dalla famiglia), adeguamento all’organizzazione nuova e sempre in evoluzione.

Gli operatori contagiati oggi in Italia sono quasi 15.000, sono morti 150 medici, 30 infermieri e ci sono stati due suicidi.

La situazione di emergenza espone il personale sanitario a una serie di fattori di rischio specifici, legati alla cura del paziente contagiato e a cambiamenti sostanziali nel lavoro (per quanto riguarda gli aspetti organizzativi, relazionali, di sicurezza) che contribuiscono all’accrescimento dello stress psico-fisico.

Il prolungarsi nel tempo dell’emergenza sanitaria può portare ad un aumento di pressione, paura e comportare una cronicizzazione dello stress che, se prolungato nel tempo e accompagnato da elevata intensità, può determinare un esaurimento delle risorse psicologiche e in alcuni casi favorire l’emergenza del burn-out. 

Il burnout è un fenomeno occupazionale, non una condizione medica (ICD: 11).

È chiara e rilevante, pertanto, l’attualità del tema della tutela della salute degli operatori sanitari in relazione all’emergenza Covid-19, più nello specifico riguardo alla salute mentale.

Generalmente la gestione dei rischi collegati allo “stress lavoro” privilegia interventi di tipo organizzativo, tuttavia, la presente condizione di emergenza sanitaria, rende necessario rafforzare interventi finalizzati al supporto individuale e al sostegno psicologico. 

L’ottica è quella di fornire al personale sanitario in condizioni di sofferenza gli strumenti e le strategie di fronteggiamento, adattamento e recupero, adeguate alla situazione. 

Rimane inoltre centrale l’importanza di una adeguata informazione del lavoratore non solo sui rischi, ma anche sulle misure di prevenzione e protezione. 

In questa situazione di crisi, infatti, l’informazione oltre al rischio biologico ed alle misure contenitive per il contagio, dovrebbe riguardare lo stress lavorativo e le azioni che si possono adottare in merito.

Oggi c’è scarso consenso circa la prevalenza del burnout tra gli operatori sanitari (da 0% a 80,5%).

Un questionario realizzato dall’Università Tor Vergata di Roma, compilato tra il 27 e il 31 marzo da quasi 1.400 operatori riporta che metà degli operatori sanitari in prima linea per il Covid evidenziano sintomi da stress post traumatico.

Inoltre il 25% denuncia depressione grave, il 20% ansia, l’8% insonnia e quasi il 22% stress. Sono più a rischio medici e infermieri in prima linea, le donne giovani e coloro i cui colleghi si sono ammalati o sono deceduti a causa del virus. I medici di medicina generale che hanno risposto al questionario presentano maggiormente sintomi da stress post traumatico, mentre gli infermieri e gli assistenti sanitari sembrano soffrire di più di insonnia grave. L’esposizione al contagio è stata associata ad un maggior rischio di depressione (QS Edizioni – sabato 25 aprile 2020. Scienza e Farmaci – Rodolfo Rossi, assegnista di ricerca all’Università Tor Vergata di Roma, primo autore dello studio).

Risulta difficile paragonare l’emergenza attuale ad altre tipologie di emergenza note, che prevedono una fase di picco seguita dal recupero generalmente, prevedibili dal punto di vista temporale e di evoluzione.

Oggi regna l’indeterminatezza temporale che alimenta uno stato di allerta costante, il confronto con il nuovo e l’inatteso, l’isolamento fisico, la responsabilità sociale e lo stigma. 

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Le persone con disabilità

In questo particolare periodo, in cui potremmo dire dire di essere tutti in una situazione di disabilità perché siamo in allarme, in lutto, siamo preoccupati, costretti o a lavorare troppo in condizioni estreme o a stare chiusi a casa a non fare niente di quello che avremmo voluto fare.

La persona con disabilità vive questo momento con un ulteriore difficoltà.

Se pensiamo alla disabilità fisica perché in questo preciso momento vengono meno anche i momenti di riabilitazione in acqua, in palestra o in specifiche strutture.

Se parliamo di disabilità intellettiva le difficoltà sono riferite al fatto che potrebbe non esserci la percezione totale e completa di quello che sta succedendo.

Per cui, riuscire a entrare in comunicazione, lasciare la persona libera di esprimere quello che pensa, soprattutto in una situazione del genere, permette di sentirsi capiti e di stare meglio.

E’ molto importante informare la famiglia, i genitori, i caregivers, gli psicologi stessi e i servizi del territorio dell’utilità che anche le persone con disabilità possono ricevere da un percorso di sostegno psicologico, partendo dal presupposto che è lo psicologo la figura professionale competente a valutare quale tipo di intervento può essere utile e necessario per una determinata persona.

Le persone con disabilità possono presentare problemi e disagi di carattere psicologico come qualunque altro individuo oltre all’alto livello di comorbidità con altri disturbi (hanno una prevalenza di disturbi mentali in comorbidità che si stima da tre a quattro volte superiore rispetto al resto della popolazione).

Nonostante ciò si ritiene spesso erroneamente che non possano godere dei benefici della psicologia.

L’idea è che le abilità cognitive e comunicative ristrette della persona con disabilità, limitano la capacità di comprensione del proprio mondo mentale e quindi la capacità di collaborare attivamente al lavoro svolto in terapia.

In realtà è necessario che lo psicoterapeuta abbia abilità cognitive e comunicative, che lo psicoterapeuta abbia capacità di comprensione del mondo mentale e la capacità di attivare interesse e quindi partecipazione alla terapia. 

Deve essere il terapeuta a trovare il modo di entrare in comunicazione con la persona.

Le persone con disabilità possono usufruire di diversi servizi che includono interventi psicoeducativi, abilitativi e riabilitativi.

Questi sono servizi fondamentali per la qualità della vita di una persona con disabilità e per la sua famiglia, che agiscono sulla disabilità della persona.

La psicoterapia invece prende in carico la persona, quindi il suo sentire, il suo pensare, quello che realmente è che spesso, e soprattutto in situazione di gravità, passa inconsapevolmente in secondo piano.

Una persona con disabilità può essere preoccupata, arrabbiata, in ansia per motivi altri dal suo stato di salute, o magari può aver bisogno di lamentarsi del disagio causato dal suo stato di salute, di fare domande particolari in riferimento a dubbi personali.

C’è anche un’altro aspetto da prendere in considerazione, noi stessi riusciamo ad avere una percezione più o meno definita della nostra personalità grazie al confronto con l’altro. Quando si ha la possibilità di dialogare con altre persone, di fare parte di un gruppo amicale o di confrontarsi con i colleghi. Questi purtroppo sono aspetti difficili da mantenere per le persona con disabilità.

Per questo motivo è importante informare anche sulla possibilità di partecipare a gruppi di auto-aiuto guidati, quindi gruppi composti da altre persone con disabilità per dare la possibilità di condividere la propria visione del disagio, di conoscere e apprezzare la propria personale reazione di fronte alla disabilità altrui, condividere con i pari quello che pensano gli altri, per non sentirsi soli o unici in senso negativo.

L’obiettivo è quindi quello di fornire uno spazio di dialogo non correttivo che permette lo sviluppo dell’autostima che ha come base imprescindibile la possibilità di percepire noi stessi come persona, sentire che esiste un nostro pensiero, che non deve essere rappresentato dalla disabilità.

Per questo parliamo di persona con disabilità. E’ fondamentale prendersi cura della disabilità ma non dobbiamo dimenticarci mai della persona.

Il mezzo che viene utilizzato in psicologia è la comunicazione (in questo periodo tramite Skype o video chiamata WhatsApp).

Utilizziamo di proposito il termine comunicazione e non parola perché dalla psicoterapia possono trarre giovamento anche, se non soprattutto, persone che non possono utilizzare la parole e che per comunicare si avvalgono di altri strumenti come la Comunicazione Alternativa Aumentativa CAA (es: Nuovo Coronavirus La giuga in CAA), l’uso delle immagini o dei gesti.

Riusciamo a immaginare quanto possa essere importante per una persona che non ha l’uso della parola avere comunque uno spazio di espressione per se stesso, per le sue idee, per i suoi pensieri, per le sue paure e preoccupazioni?

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L’ansia quale stato preminente in questo periodo, descrizione e prevenzione

L’ansia è un’emozione di base, che comporta uno stato di attivazione dell’organismo quando una situazione viene percepita soggettivamente come pericolosa.

Dal punto di vista cognitivo i sintomi dell’ansia sono: senso di vuoto e di pericolo; rimuginio di pensieri negativi; paranoia (marcata sensazione di essere osservati e di essere al centro dell’attenzione altrui).

Il comportamento conseguente è l’esplorazione dell’ambiente alla ricerca di spiegazioni e rassicurazioni. 

Possono comparire manifestazioni fisiologiche (tensione, tremore, sudore, palpitazione, aumento della frequenza cardiaca, vertigini, nausea, formicolii alle estremità ed intorno alla bocca, derealizzazione e depersonalizzazione).

I sintomi fisici dell’ansia spesso spaventano e generano circoli viziosi. Essi dipendono dal fatto che, ipotizzando di trovarsi in una situazione di pericolo, l’organismo in ansia ha bisogno della massima energia muscolare a disposizione per poter scappare o attaccare, scongiurando il pericolo e dando priorità assoluta alla possibilità di sopravvivenza.

L’ansia costituisce anche un’importante risorsa. E’ infatti una condizione fisiologica efficace in molti momenti della vita per proteggerci dai rischi, mantenere lo stato di allerta e migliorare le prestazioni (ad esempio sotto esame).

Possiamo diagnosticare un disturbo d’ansia quando l’attivazione del sistema è eccessiva tanto da complicare notevolmente la vita di una persona rendendola incapace di affrontare anche le più comuni situazioni.

I disturbi d’ansia sono: disturbo d’ansia generalizzato, fobia specifica, disturbo di panico e agorafobia, disturbo ossessivo-compulsivo, fobia sociale, disturbo post-traumatico da stress.

In questo specifico momento di pandemia, risulta quindi molto importante riuscire a gestire e modulare l’emozione ansia.

E’ necessario: selezionare le fonti da cui prendiamo le informazioni che andrebbero consultate non più di due volte al giorno; proteggere il nostro spazio personale, il privato, i momenti di solitudine anche se viviamo con altre persone o con la nostra famiglia; riempire il tempo libero con attività in grado di assorbire la nostra attenzione, e quindi, di distrarci per buona parte del tempo; mantenere un dialogo interiore onesto e sincero con noi stessi al fine di distinguere e riconoscere le nostre emozioni e reazioni; capire se preferiamo momenti di condivisione e compagnia, anche on-line, o se piuttosto stiamo meglio da soli. Accettare e comprendere che il cambiamento, in questo momento, è necessario anche se deprivante, destabilizzante e ansiogeno.

E’ arrivato il momento di rimodulare i nostri obiettivi e di concentrarci su quello di nuovo che abbiamo imparato.

Vanno ripensati, rivisti, riorganizzati gli obiettivi della nostra vita che costruiscono l’idea che abbiamo e che vogliamo avere del nostro futuro.

Inoltre dobbiamo sforzarci di riflettere su quello che abbiamo imparato di nuovo in questo periodo su di noi, sul prossimo, sulla vita, sulla morte.

Il mondo intorno sta cambiando profondamente, la nostra scala di valori subirà necessariamente dei cambiamenti.

Perciò è importante riuscire a essere fluidi, sentire e seguire il cambiamento per uscirne mentalmente vivi e positivamente attivi.

Questo comportamento mentale è l’unico che può dare una mano alla nostra resilienza ovvero alla capacità di fronteggiare efficacemente le contrarietà, dare nuovo slancio alla nostra esistenza e raggiungere mete importanti.

Le fasi dell’elaborazione della perdita possono aiutarci in questo momento a comprendere cosa stiamo vivendo e soprattutto a darci la sensazione (reale) che è normale in questo momento provare ansia o emozioni nuove e sconosciute a noi stessi.

Abbiamo perso la nostra quotidianità, la sensazione di sicurezza, di conoscenza e la nostra libertà.

Le fasi della perdita non seguono necessariamente un ordine prestabilito. È necessario sentirle, viverle e riconoscerle per darci la possibilità di elaborare in maniera positiva quello che stiamo vivendo.

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Il Disturbo Post Traumatico da Stress quale possibile effetto di questo periodo, descrizione e prevenzione

Con il termine Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD), si indicano tutte le conseguenze che l’impatto dirompente dell’esposizione ad uno stress estremo, può avere sul funzionamento psicologico e fisiologico (Flannery, 1999).

Il trauma è una lesione o un forte shock emotivo che si subisce in una situazione di immediato e diretto pericolo di vita, nel caso si perda una persona cara oppure se si è esposti a immagini di distruzione particolarmente coinvolgenti.

Le immagini e le notizie angoscianti si sedimentano quotidianamente nella nostra mente.

I soccorritori come gli operatori sanitari (medici, infermieri) esponendosi a situazioni di pericolo, provano emozioni che possono provocare stress e disturbi fisici o psichici.

Questo accade perché l’uomo possiede geneticamente dei campanelli di allarme che lo predispongono ad affrontare il pericolo ma non è preparato alle situazioni catastrofiche, epidemie, pandemie o a rispondere a disastri naturali.

Chi ha subito gravi traumi, o ha percepito soggettivamente la situazione in cui si trova come preoccupantemente grave, ha alte probabilità di avere problemi rappresentati da irritabilità, incubi e fragilità emotiva.

Si può legittimamente parlare di PTSD, quando si registrano sintomi acuti per più di un mese consecutivo. Sotto a questo livello si tratta di ansia comune per combattere la quale è necessario discernere le situazioni pericolose da quelle definite allarmanti solo dai mass media, ed applicare alcune semplici regole: sostituire l’esposizione a mezzi di informazione particolarmente allarmistici con la visione di programmi che parlano d’altro; parlare dei fatti, delle emozioni e dello stress con esperti o amici; evitare ambienti che generano ansia.

I soccorritori scrupolosi che si trovano nell’impossibilità di agire rapidamente nei confronti delle vittime, somatizzano l’accaduto colpevolizzandosi.

Il tutto si trasforma in processi di elaborazione psicologica che portano ai sintomi del disturbo da stress post traumatico: ipervigilanza, ipersensibilità, ricordi ricorrenti dell’evento, incubi, comportamenti di fuga, sintomi  depressivi, disturbi del sonno, disturbi dell’appetito ed instabilità caratteriale.

Queste elaborazioni emotive, fanno parte di processi psichici incontrollabili e imprevedibili, che si possono presentare subito o dopo mesi (Ruozzi, Bagnato, 2004).

Non esiste una cura universale per chi soffre di PTSD. Nei casi più gravi si fa uso di antidepressivi, per diminuire l’eccitabilità del sistema nervoso, e della psicoterapia, che interrompono la sequenza di pensieri negativi o di risposte condizionate automatiche.

A ragione di ciò, nell’ambito dello studio del PTSD, la necessità di passare da un paradigma di tipo tecnologico-riparativo ad un paradigma di tipo epidemiologico-preventivo (ispirato ad un modello olistico), diventa sempre più improrogabile.

È indispensabile, nell’ambito di un modello di prevenzione primaria, analizzare il bilancio fra due tipi di fattori (Cannavicci, 2000).

I fattori di rischio includono fattori fisiopatologici quali la vulnerabilità genetico-costituzionale e la reattività individuale. I fattori legati alla personalità, come tratti di disturbo borderline, paranoide, dipendente o antisociale; fattori familiari e sociali.

I fattori protettivi includono fattori individuali quali la capacità di relazionarsi con un altro da sé significativo, il livello di autostima, il rapporto con il gruppo dei pari, la capacità di chiedere aiuto, l’intelligenza emotiva.

Infine, i fattori sociali come le condizioni economiche, occupazionali e il grado di qualità dei servizi sociosanitari.

Risulta, perciò, indispensabile analizzare le caratteristiche di personalità e i relativi processi di coping dei soggetti resistenti, al fine di poter attuare, sia una più mirata selezione del personale preposto a compiti particolarmente stressanti e rischiosi, sia stimolare, nei soggetti a rischio, il potenziamento di quei tratti di personalità utili per la loro funzione protettiva.

Bartoli e Bonaiuto (1997), hanno individuato quattro fattori psicologici in grado di garantire un’ottimale resistenza nei confronti delle peggiori situazioni stressogene.

  1. La forza dell’Io costituisce la base fondamentale su cui costruire il senso di sicurezza, di identità e di autostima.
  2. L’ottimismo è l’attitudine a giudicare favorevolmente lo stato e il divenire della realtà.
  3. L’humor svolge il ruolo di moderatore dello stress, in quanto meccanismo difensivo che nella pronta ed intuitiva percezione dei paradossi che la realtà (in questo caso quella del trauma) propone, riesce a far ottenere quel distacco emotivo finalizzato al superamento della crisi.
  4. La hardiness designa una variabile caratteriale denotativa del concetto di robustezza psicologica che è caratterizzata da: resistenza, dedizione al compito, controllo, disponibilità di fronte alle sfide.

L’insieme di tutte queste caratteristiche è stato denominato Intelligenza Emotiva.

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Approfondimento

Il lutto non celebrato 

Una delle tragedie principali che sta caratterizzando questo periodo è la quantità di persone che hanno perso la vita a causa del contagio da coronavirus.

Ad aggravare la situazione si somma il fatto, probabilmente per la prima volta nella nostra storia, di non poter celebrare (non per forza in forma religiosa), vedere, salutare la persona in fin di vita e neanche dopo il suo decesso.

Questo fa parte delle esperienze di lutto con “scomparsa” ed è un’aggravante traumatizzante che ostacola pericolosamente la possibilità di gestire le fasi del lutto.

Le fasi del lutto sono 5:  negazione, rabbia, elaborazione, depressione e accettazione. 

Non seguono per forza un la sequenza così come elencata ma prevede necessariamente l’attraversamento di tutti e cinque le fasi per poter arrivare alla consapevolezza e all’accettazione che non vedremo mai più la persona a noi cara.

Privatizzare il dolore va contrastato con l’invito alla condivisione.

Con le famiglie in lutto la razionalizzazione è controproducente, il carico di chi interagisce con loro deve essere necessariamente emotivo.

Sono errori: non usare la parola morte, non piangere, negare, non rispettare il diniego della famiglia ovvero la nebbia che attutisce e temporaneamente impedisce l’urto frontale con il dolore.

Non basta l’espressione del dolore per superare la perdita e non bisogna sottovalutare l’importanza dei riti funebri. A causa di questo possono strutturarsi casi franchi di psicopatologia.

In questo momento delle nostre vite possiamo parlare di lutto complicato perché i familiari in lutto non hanno potuto salutare il congiunto amato né partecipare al rito funebre.

Il lutto complicato sabota le strategie e le capacità di coping.

E’ necessario dare spazio alla sofferenza, accettare le forti reazioni emotive che sentiamo e osserviamo dei nostri congiunti oltre a dare spazio al rituale di saluto. Quindi un rituale postumo che si può eseguire in diversi modi.

Ognuno di noi dovrà trovare il rituale in grado di sopperire la mancanza della celebrazione del funerale. Per esempio, andare in un vivaio e scegliere una pianta sempre verde da curare nel ricordo della persona scomparsa oppure seppellire oggetti del defunto accompagnato da una lettera dedicata alla persona scomparsa, da leggere a voce alta e seppellire insieme agli oggetti oppure bruciare (quello che ci da maggiormente la sensazione di essere ascoltati).

Per i bambini, possono aiutare racconti metaforici costruiti con la famiglia (esempio).

E’ giusto che anche i bambini vivano le emozioni legate al lutto.

I bambini vanno aiutati a capire cosa sta accadendo e accompagnati nell’elaborazione del lutto. Pianto, disperazione, tristezza, negazione della morte sono le reazioni più comuni. Sono le stesse che provano gli adulti ed è importante che i bambini sappiano che quello che provano è giusto e sensato.

Talvolta possono manifestarsi reazioni molto diverse, anche inaspettate, che possono preoccupare: rabbia nei confronti della persona morta, protesta, sensi di colpa e colpevolizzazione, paura, senso di abbandono, somatizzazione.

E’ importante che gli adulti di riferimento stimolino il bambino a raccontare e descrivere quello che prova e che lo ascoltino per tutto il tempo che sarà necessario.

Qualsiasi reazione va compresa e non ignorata né banalizzata, perché è una parte necessaria all’elaborazione del lutto. Tutti i vissuti vanno inseriti in una sfera di normalità e comprensione. Solo vivendo fino in fondo le emozioni, anche le più negative, può avvenire l’elaborazione del lutto.

Spiegare ai bambini che la persona non è morta per colpa loro, ma perché è accaduto qualcosa indipendente dalla sua volontà.

I bambini non hanno bisogno di essere protetti dalla verità, ma hanno bisogno di sapere di potersi fidare di quello che viene detto loro dagli adulti e di conoscere la verità.

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Autori

Dr.ssa Oriana Incognito – Psicologa Ordine Regione Siciliana n. 7765-A

Dr.ssa Manuela Crupi – Psicologa Ordine della Toscana n. 7918 -A

Dr.ssa Chiara Di Vanni – Psicologo e Psicoterapeuta Ordine Toscana 5432

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Bibliografia

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Cavalli, G., Sempio, O. L., Marchetti, A. (2007). Teoria delle Mente, Metacognizione, Emozioni, Affetti: Quali legami?. Ricerca Psicoanalitica, 3, pp. 347-370.

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Edwars.J. R. (1988). The Determinants and Consequences of Coping with Stress. Chapter 8.  Edit. by C. L. Cooper and R.Payene. John Wiley  & Sons Ltd 

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Di seguito altri articoli:

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